Difficile trovare oggi qualcuno che non storca un po’ il naso quando gli si parla di pubblicità. È giusto biasimarlo? non me la sento di affermarlo, pur facendo parte dell’ingranaggio pubblicitario. Eppure, come connotazioni, essa ha una valenza storica considerevole, se la pensiamo presente sin dalle mura di Pompei nell’annunciare spettacoli, feste, gare sportive e quant’altro.
La pubblicità però, per come la conosciamo ai giorni nostri, ha fondamenta nella rivoluzione industriale; quando si rese necessario informare gli acquirenti sulla maggiore offerta di prodotti. È però l’avvento dei media, in questo caso della stampa e dei relativi quotidiani, a divulgarla alle masse. Per arrivare ai primi anni venti, quando Daniel Stach pubblica il primo vero trattato sulla pubblicità in cui definisce le cinque regole fondamentali;
1. essere visto, perciò bisogna conferirgli la necessaria attrattiva;
2. essere letto, perché molti annunci sono guardati, ma non osservati;
3. essere creduto, perché un buon annuncio deve convincere l'acquirente della veridicità di quanto promette;
2. essere letto, perché molti annunci sono guardati, ma non osservati;
3. essere creduto, perché un buon annuncio deve convincere l'acquirente della veridicità di quanto promette;
4. essere ricordato;
5. essere capace di spingere il compratore ad agire, cioè ad acquistare un determinato prodotto.
Regole forse datate per nascita, ma ancora oggi valide. Sebbene con il passare dei decenni gli operatori del mestiere abbiano puntato sulla capacità di eccitare l’emotività degli acquirenti facendo largo uso di martellante ripetitività. Del resto, nel concetto di base, “pubblicità” sta per rendere noto al pubblico, “advertising” privilegia il concetto dell’avvertire le masse, “réclame” privilegia invece il richiamo ad un’azione insita nel messaggio.
Sta quindi agli stessi operatori trovare le giuste vie per invertire una tendenza che ha reso, in molti casi, il pubblico insofferente.
Regole forse datate per nascita, ma ancora oggi valide. Sebbene con il passare dei decenni gli operatori del mestiere abbiano puntato sulla capacità di eccitare l’emotività degli acquirenti facendo largo uso di martellante ripetitività. Del resto, nel concetto di base, “pubblicità” sta per rendere noto al pubblico, “advertising” privilegia il concetto dell’avvertire le masse, “réclame” privilegia invece il richiamo ad un’azione insita nel messaggio.
Sta quindi agli stessi operatori trovare le giuste vie per invertire una tendenza che ha reso, in molti casi, il pubblico insofferente.
4 commenti:
Bellissimo post, Alberto.
Stach ha centrato in pieno le linee dinamiche di un mestiere che si adattano perfettamente ancora ai nostri tempi.
Purtroppo la soglia di attenzione, da allora, si è notevolmente abbassata sotto i livelli di guardia. Tempo medio di lettura per una campagna pubblicitaria: 2 secondi. Se non ti inventi qualcosa che che attragga l'attenzione in quei due secondi, hai fallito.
Storia diversa per altri mezzi di comunicazione, ma la storia è sempre quella ("Fai merenda con girella", mi verrebbe da aggiungere :)
Grazie per l'apprezzamento Luigi.
Concordo su quanto esprimi nei confronti di Daniel Stach.
Io credo che l'avvento dell'era digitale nella grafica abbia contribuito si ad accellerare il processo evolutivo dei progetti, ma li abbia anche pesantemente penalizzati nei contenuti.
Basta guardare qualche pannello promozionale degli anni sessanta e confrontarlo con gli odierni; la carenza è sin troppo ovvia.
Ma lo è anche nel modello di vita... e noi siamo figli di tempistiche distratte e sempre in corsa, purtroppo.
:)
La pubblicità è una forma di comunicazione e, come tale, può essere una forma d'arte (che cos'è l'arte se non comunicazione, veicolo di idee e di emozioni?). Poi, come diceva Oscar Wilde riguardo ai libri, non ci sono libri morali o immorali, ma soltanto libri belli e libri brutti.
Si, Moreno.
La comunicazione, se ben fatta, può diventare anche una forma d'arte.
Naturalmente è vero anche quanto sostiene Oscar Wilde. Per ogni creazione vi sono i presupposti per offrire un bel lavoro o un lavoro mediocre.
:)
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